Riusciremo anche a piangere i morti

03/05/2020
03/05/2020 nz

Riusciremo anche a piangere i morti

Prepararsi al futuro ripensando a quello che non dobbiamo lasciare alle spalle.

Parte del progetto di ricerca what makes us weaker, makes us closer

Il ricordo di questi mesi non sarà scindibile dalla percezione lacerante che il lutto abbia acquisito per noi una dimensione diversa.

Non posso giurarci, non posso sapere se sia, o sarà o è stata la stessa cosa per tutti. Per me è così: non credo sarò più la stessa persona di prima. E forse non lo voglio nemmeno.

Ci sono stati giorni in cui ho pensato che da un momento all’altro avrei potuto perdere i miei cari (mia madre alle prese per settimane con una febbre che non passa; mio zio arrivato sulla soglia di un ospedale, poi rimandato indietro con sospetto Covid da curarsi tra le mura di casa a suon di antibiotici). Ci sono state giornate in cui l’idea di non poter incontrare i miei genitori, di non poterli rivedere mai più se qualcosa fosse andato improvvisamente storto si è annidata nella mia testa come un pensiero impossibile da ignorare. Impossibile non farci i conti: per chi si è trovato locked-down a Brescia o Bergamo in questi mesi, credo sia stato un pensiero condiviso. E credo per molti il tempo abbia iniziato ad avere una dimensione diversa: una sensazione fisica, quasi spaziale seppur dispersa in un vuoto in cui tutti quanti abbiamo fatto fatica a galleggiare. Facendo i conti con noi stessi ed i nostri insoluti irrisolti.

Credo sia stata questa necessità di vedere che in queste settimane mi ha spinto a prendere in mano la macchina fotografica e provare testimoniare qualcosa, quello che potevo; impossibile provare a farlo attraverso l’audiovisivo (linguaggio a cui mi sono maggiormente addestrato negli ultimi anni), soprattutto quando tutto diventa trasparente come una città vuota, o impenetrabile come un ospedale al centro di un dramma planetario.

Era necessario fare a pezzi la complessità del mondo in una serie di istanti per provare a comprendere, mettendo tra me ed i miei occhi lo sguardo protettivo di una lente. 

Non è stato affatto semplice, né immediato.

Non lo è tutt’ora: ancora adesso mi chiedo se abbia avuto senso, se ne ha o ne avrà nel tempo a venire. So solamente che non dimenticherò mai ciò che ho provato nel vedere sfilare davanti ai miei occhi le bare davanti al tempio crematorio, con una fila di carri funebri che non si esauriva.

Sono riuscito ad affrontare il viaggio di questi mesi solo grazie all’aiuto di altri.

Quello che sono riuscito a fare in queste settimane risente dell’appoggio di tutta la mia squadra SMK Factory, e soprattutto della mia compagna Stefania. Mai come ora l’intimo ed il pubblico si sono trovati condensati in un viaggio durato giorni, nell’apnea senza fine di una città ritornata a misura del mio passo, quasi sempre solitario nel tutto indistinto.

Devo nondimeno un grandissimo ringraziamento a Silvana Salvadori – ex collega dei tempi de Il Brescia E-polis – per avermi messo in contatto con Lucia Buizza del Centro Sevizi Funebri e membro dell’Asof, perchè è stato grazie a Lucia se ho potuto vedere qualcosa di più, andare dietro le porte chiuse di alcune chiese e dentro i cimiteri. Parlando con i suoi ragazzi ho potuto avere una testimonianza diretta, mentre li osservavo lavorare con grande zelo ai tanti, troppi funerali a porte chiuse avvenuti in questi mesi di grande apprensione; grazie a loro sono riuscito ad oltrepassare la coltre insensibile delle notizie che mi hanno anestetizzato per settimane nel lockdown di una poltrona, mentre mi trovavo azzerato nella sospensione di tutti i progetti a cui impegnato.

Quando faccio la conoscenza di Lucia è il 27 di marzo; la trovo nell’ufficio del suo deposito intenta a stilare la lista delle squadre per il giorno successivo; in base alle distanze, alle tempistiche delle varie funzioni e all’altezza dei ragazzi deve preparare i turni per 45 servizi. “Normalmente sono 10, 12 massimo 15 al giorno. In questo mese siamo arrivati anche a 60”. Vicino a lei passano i suoi ragazzi, di ritorno da una lunga giornata di lavoro, iniziata alle 7 e conclusasi alle 18; dai telefoni mi mostrano alcune foto recenti della situazione che si para loro davanti quando varcano la soglia di un ospedale o di una residenza per anziani, con bare accatastate come si può dentro le sale mortuarie o nelle case del commiato, a volte una a ridosso dell’altra con i beni dei defunti racchiusi dentro un sacco. I ragazzi con cui parlo – alcuni più adulti, altri più giovani –  mi descrivono una situazione ai limiti di quanto sia psicologicamente sopportabile. 

Il giorno dopo seguo alcuni di loro nelle funzioni a cui devono prestare servizio tra Brescia e provincia; ritrovo verso sera al cimitero di Cigole – alla settima funzione della giornata – una squadra incrociata solo di sfuggita al mattino. “Speriamo che finisca presto, non ce la facciamo più. Sono settimane che lavoriamo tutti i giorni, tutto il giorno. Umanamente è difficile perchè si perde il contatto con la realtà: molto spesso non c’è nemmeno una funzione, solo una breve benedizione. Questo rende più difficile il nostro lavoro perchè non ci sembra più di spostare delle persone, ma delle cose. La mancanza del rito, della funzione, spersonalizza questo evento e rende tutto meccanico. E’ veramente pesante” mi dicono tutti, per lo più rugbisti che non sembrano conoscere la fatica. La posso tuttavia vedere, dietro le mascherine che coprono il volto ma non gli occhi “Ti dico solo che di solito prendo parte a 10-12 funzioni al mese. In queste settimane ne faccio 6, 7 o 8 al giorno” aggiunge uno di loro.

Sono tornato a trovare Lucia a fine Aprile.

Ci siamo sentiti varie volte al telefono in questo mese, mi ha tenuto aggiornato sull’andamento della situazione. Ci incontriamo di nuovo una sera alla fine di uno dei suoi tanti viaggi di questi mesi: spesso in queste settimane ha trasportato salme  ai templi crematori fuori regione, perchè il tempio di Brescia sta lavorando a pieno regime da due mesi oramai e non riesce a ricevere tutti i defunti. 

“Ci sono state giornate in cui pure a me, che faccio questo lavoro da più di 30 anni, non sembrava vero di portare con il furgone 4 casse ai forni crematori di Ferrara o Bologna. Può essere che l’emergenza sia passata, ma non so dire cosa potrebbe succedere se si dovesse ripresentare la stessa situazione in futuro: ora siamo più preparati, certo, ma psicologicamente per noi è stato devastante.”

“La situazione è stata drastica nei giorni centrali di marzo. Non esagero se dico che i miei ragazzi erano sul punto di crollare. Prossimamente organizzerò delle sedute con uno psicoterapeuta specializzato in gestione dello stress post-traumautico, il dott. Andrea Cirelli di Brescia dell’Associazione Mepai. Dopo un po’ che fai questo lavoro ci prendi le misure, sai affrontare la morte con il dovuto distacco: ma il numero di servizi che abbiamo svolto nell’ultimo mese credo abbia segnato tutti. Solo adesso iniziamo a razionalizzare quanto successo. “

“Devi considerare un semplice dato numerico: i dati ufficiali del Comune di Brescia parlano – per marzo 2019 – di 360 decessi. A marzo 2020 sono stati 1160: io credo di aver fatto circa 1000 servizi tra inizio marzo e metà aprile. Le pompe funebri sono riuscite a fatica a far fronte a questa catastrofe: un mio cliente è arrivato ad avere 70 chiamate in una settimana, a fronte delle 10 abituali. Non esagero se dico che siamo tutti ancora sotto shock.”

“Certo all’inizio c’è stata molta confusione nell’attribuzione esatta della causa di morte. I numeri esatti di decessi per Covid li conosceremo tra un po’, quando si analizzeranno i dati delle schede Istat che sono state depositate: ma il numero assoluto dei morti è già abbastanza emblematico per descrivere quello che abbiamo affrontato. Ora abbiamo solamente voglia di normalità, ma abbiamo paura che una nuova ondata possa tornare. Ne abbiamo veramente timore perchè per la prima volta ci siamo sentiti tutti quanti inermi di fronte a questo nemico. A Brescia credo che abbiamo evitato la fine di Bergamo solamente perchè qui ci sono 3 centri servizi che collaborano tra loro, a differenza di Bergamo che non ne ha nessuno: credo che parte del disastro che è capitato risieda in questo. Noi abbiamo saputo gestire meglio, in maniera forse anche più discreta, una situazione parimenti drammatica. E Brescia ha aiutato tanto le città vicine.”

Due settimane fa sono stato all’Ospedale di Bergamo.

Sono stato contattato da una regista tedesca, Stefanie, attraverso amicizie comuni. Era molto interessata a quello che stava avvenendo dalle nostre parti. Mi ha chiesto di andare a conoscere il cappellano dell’ospedale Papa Giovanni XXIII perché ne aveva letto sui giornali tedeschi.

Dopo aver recuperato alcune informazioni on-line su fra Aquilino, mi sono convinto valesse la pena superare la frontiera invisibile della mia provincia e andare a conoscerlo. Fra Aquilino vive nella casa dei missionari accanto all’ingresso del pronto soccorso dell’ospedale, un luogo denso di storie e fantasmi che posso solo immaginare. Il giorno della mia visita tutto pare quieto e impalpabile, in una domenica pomeriggio di metà aprile, quando la terapia intensiva si è già svuotata e le ambulanze si vedono passare senza sosta, ma muovendosi senza fretta.

Cerco fra Aquilino e lo riesco a trovare solo dopo un’ora e mezza, intento a pregare nella cappella dell’ospedale e dimentico del nostro appuntamento. Non sentiva le mie chiamate e io lo stavo attendendo invano.

“Vedi” mi dice “io sento solo di essere stato solamente un messaggero della misericordia del Signore 

Fra Aquilino è stato protagonista di una vicenda isolata, nel marasma delle cose che si sono verificate tra le corsie dell’ospedale Papa Giovanni. Sulla stampa nostrana ed estera è stato presentato come il frate che funge da tramite tra i vivi e i morti. E’ in realtà semplicemente capitato che, un giorno, una signora gli abbia chiesto di poterla avvisare se qualcosa fosse andato storto con il marito in ospedale. Fra Aquilino, che quotidianamente si spende tra i malati e la camera mortuaria, ha ricontattato la signora e, tenendo il cellulare acceso, vicino alla bara del marito morto dopo alcune settimane di degenza in terapia intensiva, le ha permesso di pregare per lui e salutarlo un’ultima volta. “Questo fatto è stato un po’ esagerato dalla stampa: è successo solo una volta. Tuttavia, mi ha permesso di parlare di questo dramma, di ricordare a tutti di queste morti solitarie che io ho visto. Ho ricevuto messaggi da tutto il mondo. Ci sono stati giorni in cui l’obitorio si riempiva di defunti e ho visto medici ed infermieri fermarsi e pregare per le persone che non potevano essere vicine ai propri cari. Ho visto scene di una grandissima umanità: credo che questo sia il grande messaggio, la lezione che dobbiamo trarre da questa tragedia. Ci siamo trovati di fronte alla nostra fragilità, alle grandi domande dell’Uomo. Dobbiamo imparare ad apprezzare il tempo che abbiamo davanti e amare gli altri. Guardaci negli occhi, prenderci per mano e rialzarci assieme per riprendere insieme il cammino.”

“La cosa più brutta che ci ha tolto questo virus sono gli abbracci, è il contatto con le persone.”

mi dice Lucia, mentre ci congediamo “A me la morte non impressiona, ci sono abituata. Mi fa però paura, davvero paura, immaginare l’effetto che tutto quanto è successo avrà sulla nostra vita.”

Come influenzeranno la nostra vita questi lutti mancati?” chiedo con un’ultima domanda

“Ci sono persone come te che si interessano, altre a cui non fregherà niente:  avranno risentito di tutta questa situazione perchè sono state obbligate a rimanere a casa; ma a molti di questa tragedia non importerà più nulla nel giro di poco. Chi non è stato toccato da un lutto, può anche far finta di nulla e da domani ricominciare come prima.”

Mi allontano dall’agenzia di Lucia e mi trovo a perdermi per le strade ritrovandomi solo, un po’ più distante, verso la fermata della metro di san Polino. Fuori le case alcune giostre sono ancora nastrate, ferme a contemplare un tempo che tra poco allenterà le briglie e ci riporterà alla vita di prima.

Penso a questi mesi, penso al mio tempo fuori dalla quarantena degli altri. Rifletto su quante fotografie non ho ancora mostrato, su quanti incontri non ho ancora raccontato. So che qualcosa non finisce con la fine della Fase 1, perchè è in realtà sempre stato il dopo ad interessarmi: interrogarmi su cosa saremmo divenuti, all’interno di questo trauma, se agenti attivi nella ricoagulazione della ferita – o virus a nostra volta.

Chissà come sarà il domani?” continuavo a chiedermi a marzo, tornando da Ginevra mentre l’Italia era stata già chiusa da alcuni giorni.

“Speriamo possa essere meglio – speriamo – di quello che eravamo” è sempre stata la risposta.

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