Dall’impresa alla comunità

27/04/2020
27/04/2020 nz

Dall’impresa alla comunità

Visita a due aziende tessili riconvertite alla produzione di dispositivi di protezione

In Italia non si producono più mascherine perchè non è economicamente vantaggioso” ragiono insieme a Giulia “e così, nel momento del bisogno, non se ne sono trovate”. Giulia è la figlia di Michela Facenti, titolare dell’omonima azienda Matteo Rota, ideatrice del brand Alto Milano, una delle due realtà d’eccellenza del tessile che hanno deciso di aprire le porte delle loro aziende per raccontarmi la loro esperienza: negli ultimi mesi – complice il blocco della produzione causato dall’epidemia che ha investito tutti i settori del mondo del lavoro – hanno convertito parte della propria attività per la produzione delle oramai indispensabili mascherine. “Non è certo un prodotto su cui si può lucrare, soprattutto oggi. E per aziende del made in Italy sono produzioni costose: noi lo facciamo perchè ce lo chiedono, perchè ce n’è bisogno” aggiunge Giulia.

Oggetto strano, la mascherina: da perfetta sconosciuta ad accessorio necessario, obbligatorio in poche settimane; ma a causa dell’altissima richiesta, per molti giorni non è stato possibile trovarne – e tantissime sono state le segnalazioni di truffe on-line o di rincari esorbitanti sui prezzi. La paura da una parte, l’obbligo d’utilizzo dall’altra hanno fatto levitare una domanda impossibile da soddisfare. Così è capitato che aziende come Facenti/Alto Milano di Bagnolo Mella o la Matteo Rota – brand di Due Emme Camiceria di Palazzolo sull’Oglio – insieme a tante altre –  si siano trovate a escogitare strategie alternative, partendo dalla propria vocazione produttiva e dal proprio expertise tecnico, riuscendo in un colpo solo a non fermare del tutto la produzione dell’azienda e a contribuire concretamente ai bisogni delle comunità che avevano attorno.

“E’ stato necessario” mi dice Matilde Moretti di Due Emme “Le farmacie della zona hanno incominciato a implorarci di fare qualcosa. Non si trovavano mascherine, ce n’era un bisogno estremo.” Camminiamo nella zona centrale di produzione dell’azienda, dove in un salone ordinato e luminoso solo alcune delle postazioni di cucitura e stiro sono attive – rigorosamente rispettando le distanze di sicurezza “Il 10 di marzo abbiamo fermato la produzione: la situazione ce la ricordiamo tutti. In seguito ci siamo convinti a provare a dare una mano e abbiamo chiesto ai nostri collaboratori, a chi se la sentisse, di tornare a lavorare per iniziare questa produzione per noi inusuale. Abbiamo lavorato anche 12 ore al giorno per riuscire a produrre migliaia di pezzi, molti dei quali donati in beneficienza. Noi lavoriamo nel campo della moda, quindi tutte le nostre lavorazioni sono confezionate a mano. Anche i tessuti sono pregiati, ma noi abbiamo dato anima e corpo per questo progetto senza badare ai costi: ci è sembrato necessario farlo”.

“Io sono rimasta a casa quando l’azienda dove lavoravo come fashion designer si è fermata.” continua Giulia, mentre davanti ai miei occhi taglia e cuce pezzi che normalmente andrebbero a comporre delle calze di cotone “A seguito di richieste da parte di Confindustria, insieme a mia madre ci siamo chieste come potevamo convertire parte della nostra produzione. Una completa conversione era impossibile, ed ovviamente non vogliamo smettere di fare quello che abbiamo sempre fatto; quindi abbiamo cercato di adattare alla produzione di mascherine le lavorazioni che i nostri fornitori abitualmente ci conferiscono, preservando in questo modo la nostra filiera. Io ho studiato un disegno che consentisse, utilizzando la parte della calza, di cucire insieme due tagli sagomandoli secondo un modello. In questo modo si riesce a creare una mascherina di cotone e licra lavabile, al cui interno riporre un filtro in TNT certificato dal Politecnico: ci siamo spesi molto insieme ai suoi tecnici per mandare in produzione in tempi brevi mascherine che potessero essere riutilizzabili, lavabili e allo stesso tempo sicure.”

“Questa è stata la soluzione che abbiamo trovato per rispondere ad una richiesta che faceva leva su un bisogno impellente, ma è stato anche un modo per riuscire a tenere in piedi la nostra produzione” conclude Giulia, mostrandomi il prototipo finito che verrà realizzato in serie nei laboratori “la nostra azienda esiste da 96 anni, e non sappiamo quanto durerà questa situazione. Abbiamo famiglie a carico che hanno bisogno di mangiare. Questo è parte della responsabilità di noi imprenditori.”

“Per noi è stata un’esperienza che ci ha unito” aggiunge Michela, madre di Giulia e titolare dell’azienda di Bagnolo Mella “abbiamo sviluppato questo progetto insieme, in un momento difficile in cui la resilienza deve essere la nostra forza.”

“Sono anche convinta che questa esperienza ci cambierà tutti” le fa idealmente eco da Palazzolo Matilde Rota “c’è bisogno di ritrovare un senso di comunità che si era perso: quello che è capitato dalle nostre parti ci ha spinti a farci sentire di nuovo uniti. Ed è da questo legame col territorio che dovremo ripartire, più forti di prima”.

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