“Io in questa situazione non mi sento di dare la colpa a nessuno” mi dice la dottoressa Paola Prati, veterinaria del Istituto Zooprofilattico di Pavia, una dei tanti laboratori in cui in questi due mesi sono state realizzate le analisi dei tamponi per rilevare la presenza del Covid-19 “L’unica cosa che dobbiamo fare è restare uniti, combattere insieme“.
Il mio viaggio verso Pavia è accompagnato dalla consapevolezza di essere uno dei pochi automobilisti sulla strada: tanti i camion, certo, ma poche le automobili. Attraverso la solita produttiva Pianura Padana, dove ai campi coltivati si alternano i capannoni delle industrie e del comparto della logistica di Piacenza: una delle aree dove non si è mai veramente smesso di lavorare e dove si contano più morti. Questa è una giornata molto particolare, perchè dentro di me sento di essere in procinto di compiere un passo più lungo di quanto avrei mai pensato di fare, cercando di avvicinare la lente – quindi anche me stesso – il più possibile al nemico pubblico numero uno , il SARS-CoV-2.
Un sole primaverile mi aspetta, ma dentro di me non si scioglie la sensazione che a breve entrerò nel Nautilus, per scendere nelle profondità di questa storia. Chissà che faccia deve avere il mostro se visto da vicino? Guardo dritto verso la luce ascoltando musica improbabile quando le porte si spalancano alle mie spalle, sorprendendomi a canticchiare motivi del tutto fuori luogo prima del viaggio al centro del reattore, verso la fusione del nocciolo del mio mostro interiore.
Oltre le porte si apre un mondo che non mi aspetto: rilassante, ordinato e luminoso. Un po’ delude l’aspettativa che mi ero fatto, avendo immaginato per giorni di trovare in prossimità del mostro qualcosa di simile ad un campo di battaglia. Niente di più sbagliato, anche se so che non potrò muovermi con agilità nelle stanze e che dovrò fare attenzione ad ogni cosa che tocco. “In realtà” mi dirà più tardi la dottoressa Prati “io mi sento più al sicuro qui che al supermercato. Tutto qua dentro è perfettamente sterile e le stanze in cui il virus viene maneggiato sono assolutamente sigillate e depressurizzate.”
Lascio il mio zaino in una stanza “pulita”; per cambiare obiettivo devo fare attenzione a non appoggiare nulla per terra e devo tenere legata in vita una borsa porta lenti – non ci sarà alcun modo di “sporcarsi”, eppure le precauzioni non sono mai troppe.
“In questa stanza” dice indicandomi la prima area della visita “avviene l’accettazione dei tamponi. Vengono introdotti dall’esterno in un box sigillato. Ad ogni nome verrà corrisposto un numero e da qui in avanti tutto resterà anonimo. Solo alla fine i risultati delle analisi vengono incrociati con i nomi dei pazienti. Le provette vengono maneggiate sotto una cappa aspirante – anche nelle stanze successive, tutto verrà svolto con la massima cautela.”
Osserviamo la procedura oltre il vetro: all’interno della sala di accettazione i medici indossano i DPI che abbiamo imparato a conoscere molto in fretta. E’ strano doversi confrontare attraverso un vetro con persone di cui fatichi a leggere la fisionomia del volto e con cui si comunica attraverso un citofono. Io, dal canto mio, mi sento un po’ un fotografo di acquari – ed è in fondo qui che la metafora del Nautilus e del viaggio in un abisso invisibile inizia a prendere forma.
Attraversiamo il corridoio e, dopo aver oltrepassato una serie di porte stagne che sembrano portelli di una corazzata con tanto di gradino di rialzo, arriviamo al centro del nucleo del reattore. Qui viene manipolato l’atomo del mostro; oltre una doppia porta sigillata con apertura a comando, due operatori che sembrano lontani anni luce nello spazio stanno aprendo un contenitore di provette. “In realtà il percorso che noi abbiamo fatto non è lo stesso dei tamponi: loro vengono trasferiti attraverso corridoi interni per non essere mai a contatto con la zona pulita del laboratorio.” spiega la dottoressa Prati “Sotto quella cappa la confezione viene aperta, il tampone viene immerso in un liquido di trasporto in cui si scioglie il materiale organico raccolto. Il campione viene in seguito immerso in un buffer di lisi che rende inoffensivo il virus distruggendo la sua parte più esterna, l’envelope. Da qui in avanti non serviranno più tute in tyvek per proteggersi perchè è stato reso innocquo: basterà maneggiare i campioni sotto una cappa a flusso laminare. Le provette verranno passate attraverso questa finestra dopo che sarà stata aspirata l’aria dall’interno dell’area di scambio.” Spingo lo sguardo oltre il doppio vetro: i due sub nell’oblò operano con lunghe micropipette aspiranti su microscopiche provette trasparenti, maneggiando liquidi che sembrano scintillare per l’effetto di rifrazione della luce.
Seguo la dottoressa nel laboratorio successivo dove trovo un equipe di tecnici all’apparenza più rilassati, sicuramente più a loro agio in abiti decisamente più rassicuranti. Osservo con attenzione le macchine che agiscono su un box di provette estraendo da ciascun campione il virus per l’azione dei reagenti, cerco di immaginarmi che cosa possa succedere al suo interno ma la mia immaginazione è frenata dall’evidenza più seccante di tutta questa storia: non è possibile vedere molto. Il mostro è sempre lì dentro, steso da composti chimici di cui posso solo fantasticare il funzionamento.
“Dopo aver estratto l’RNA, questo viene amplificato attraverso dei cicli di lavorazione che permettono di rilevare la presenza del virus. Se il virus è presente, noi lo vediamo da questo monitor” mi dice Nadia Vicari, biologa, mostrandomi nell’ultima stanza dell’Istituto una serie di postazioni dove le provette vengono analizzate a gruppi di novanta per volta. “La linea rossa indica il virus, la linea blu indica che la reazione è avvenuta correttamente. Se il virus è presente, noi lo vediamo. Ad ogni linea è associato un campione analizzato. Può essere più o meno marcata la sua presenza, ma se è presente lo scopriamo con certezza. Ovviamente, questo diventa anche il segnale che preannuncia una brutta notizia da dare a qualcuno.”
“Molti agenti infettivi sono di origine animale.” mi spiega Paola Prati alla fine della mia esplorazione del Nautilus, nel mio viaggio alla ricerca del virus “Noi a Pavia studiamo le zoonosi e cerchiamo di contrastare la diffusione di malattie: una convivenza troppo stretta con il mondo selvatico può portare a salti di specie, perchè i virus si adattano all’uomo. Per questo il servizio sanitario nazionale e istituti come il nostro monitorano costantemente le popolazioni selvatiche. Siamo abituati a farlo, a contrastare queste emergenze, però non con questa gravità.”
Il racconto di quanto abbiamo visto ora diviene più personale, dopo aver ripercorso le varie tappe della visita al tavolo di una scrivania, nell’ufficio in cui ho lasciato lo zaino “Siamo abituati ad avere a che fare con gli animali. Io amo gli animali altrimenti non farei la veterinaria, ma c’è un coinvolgimento emotivo diverso da quello che si ha con l’uomo. Noi in questi mesi ci siamo dovuti confrontare con le case di cura, con gli ospedali, con infermieri e medici che imploravano un aiuto, di avere notizie positive per poter tornare a lavorare, ad aiutare i pazienti, a salvare vite.”
In questo momento gli occhi di entrambi comunicano di più di quello che la mascherina nasconde; non riesco a vedere altro che gli occhi della dottoressa. Oramai mi sono abituato in questi giorni a non nascondere le emozioni sul mio volto; anche se tutte le facce compresa la mia non mostrano gran parte del viso, sono perfettamente cosciente che gli occhi comunichino molto di più di quanto venga nascosto.
“E’ capitato più di una volta che ci trovassimo a piangere al telefono insieme, perchè le persone con cui parlavamo ci raccontavano la loro storia e noi non avevamo notizie positive per loro. Si sono esposti al contagio mentre rianimavano o curavano pazienti che già sapevano essere positivi; hanno messo la vita altrui prima di ogni altra cosa e per questo si sono infettati.”
“Noi stiamo lavorando anche 14 ore al giorno, torniamo a casa la sera tardi e la mattina ripartiamo motivati e con grinta perchè sappiamo che il nostro lavoro è importante. Io vedo i miei figli sono un giorno alla settimana e pochi minuti la sera al mio rientro. Ciascuno sta facendo la propria piccola parte all’interno di una situazione complessa e difficile, per questo tutti cercano di dare il massimo. La mattina ci svegliamo con la voglia di venire a lavorare. Con la voglia di essere utili. Tecnici e veterinari di altre sedi vengono volontariamente a dare una mano per permetterci un po’ di turn-over. Stiamo vivendo anche momenti di collaborazione e solidarietà meravigliosi.”
Mentre ci stiamo per salutare, decidiamo all’improvviso di tornare nella plancia del Nautilus, di distogliere per pochi istanti il personale dalle proprie occupazioni e di scattare a tutti una fotografia. Mi sembra la cosa minima che posso fare, ma comunque importante. Forse solo per distruggere l’idea dell’acquario che tanto detesto. Forse perchè mi sento parte insieme a loro di un viaggio comune.
Queste fotografie subito mi ricordano tutte quelle che ho visto circolare in queste settimane, provenienti da vari ospedali d’Italia e del mondo in cui medici, infermieri, operatori vengono ritratti con il volto segnato dalle maschere, nascosto dagli occhiali, protetto dalle tute. Solo più tardi guarderò gli occhi delle persone che ho salutato e ringraziato attraverso un vetro o da qualche metro di distanza, accorgendomi quanto i loro occhi comunichino più delle parole che ho provato ad usare, cercando di trasmettere la sensazione che avverto ogni volta che compio un passo in più nel mio personale viaggio nel mondo al tempo del Covid. Avverto i visi stanchi di cui mi ha parlato Paola, ma trovo in quella stanchezza la forza della dedizione, l’orgoglio di chi è consapevole di star facendo qualcosa di importante, qualcosa di fondamentale.
Eccolo qua, il mondo dell’impegno, la causa del bene comune. Sono gli occhi stanchi e i volti segnati di queste persone nascoste per giorni da tute ingrombranti, da guanti fastidiosi e mascherine soffocanti.
Mi allontano da Pavia ripassando davanti allo striscione in cui si parla di eroi. Mentre lentamente attraverso la pianura non posso che meditare su un assunto che si sta lentamente delineando nella mia testa. Mi sussurra che in fondo un pezzo di eroismo possa appartenere un po’ a tutti, che ci sia dell’eroismo diffuso nella vita comune. Solo in date circostanze quello che uno si trova a fare nella vita appare per le qualità e l’importanza che gli appartengono da sempre. Solo a volte l’eroismo che ci lega agli altri risulta evidente. Visibile. Un po’ come in un Nautilus, alla ricerca di un virus che non si mostra se non nelle sue conseguenze.