Restare in Vita

15/12/2024
15/12/2024 nz

Restare in Vita

Ieri ero in viaggio verso la Sardegna per presentare *11 Giorni* alla casa natale di Antonio Gramsci ad Ales, in provincia di Oristano. Un luogo carico di tracce, animato dall’ Associazione Casa Natale Antonio Gramsci Ales che ogni anno organizza incontri, mostre e un concorso artistico per i detenuti delle carceri italiane. La casa di Gramsci non è solo un simbolo: è un monito. Ricorda che le idee giuste, anche nei momenti più bui, resistono e continuano a riverberare.
Mentre ero in viaggio mi ha colpito vedere le immagini della sera precedente provenienti dalla mia città, Brescia, dove 500 topolini in fila per sei col resto di due hanno sfilato per le strade.
Li conosciamo. Non è la prima volta e non sarà l’ultima che i nostalgici dell’autoritarismo fascista cercano di farsi spazio. Marce buie, fatte di cori rabbiosi, destinate a illuminarsi solo del riflesso di un fuoco spento. Un corteo funebre che proprio per la sua aria mortifera incute timore e solleva indignata preoccupazione.
Ieri, a Roma, 100.000 persone hanno sfilato contro il ddl Sicurezza. Un ddl il cui impianto si inserisce perfettamente nella linea politica di un autoritarismo cupo, che criminalizza il dissenso inasprendo le pene e aprendo le porte al carcere per reati di opinione, ponendo al contempo maggior potere repressivo nelle mani delle forza dell’ordine. Un chiaro messaggio di indirizzo politico a vocazione autoritaria, dove agli enormi problemi sociali legati a casa ed ambiente si vuole rispondere semplicemente con la forza. senza fornire risposte e soluzioni.
Allo stesso tempo, il numero delle persone scese in piazza parla chiaro, ma ha avuto poco risalto mediatico. Il silenzio pesa, e i media sembrano più attratti dall’eco di quei 500 che dalla forza di un popolo in marcia – e forse anche noi, spinti dal nostro sdegno. Questo gioco non è nuovo: amplificare ciò che divide, ignorare ciò che unisce. Incutere paura. Mostrare la scure.
Eppure, a conti fatti siamo in proporzione di 100.000 a 500.
Sappiamo chi nel passato recente ha attraversato le nostre città seminando bombe e distruggendo il patto sociale. Sappiamo chi ha trasformato l’odio in strumento di potere. Basta tornare indietro di cinquant’anni per ricordare chi ha insanguinato Piazza della Loggia. E prima Piazza Fontana, E la stazione di Bologna. In pochi giorni, in queste città è tornato a serpeggiare un pericoloso messaggio velenoso, che vuole soffiare sulla paura per trasformare l’indifferenza in complicità. Remissione dei peccati abbassando la testa. Il silenzio come arma di ricatto e di potere.
Ieri, sempre durante il viaggio, leggevo le prime testimonianze provenienti dalle carceri di Assad e riflettevo su come tutto sembra spezzarsi e andare in frantumi quando l’autoritarismo si eleva a forma di controllo e di governo, quando il potere si concentra nella mani di pochi e l’oppositore politico cessa di essere “umano” e si può trasformare da “soggetto” a “suddito” e poi in “oggetto” di cui si può abusare a piacimento. Lì finisce l’umanità ed inizia il vero Stato di Terrore. Uno Stato di Terrore a vocazione identitaria, che legittima i suoi massacri con la scusa dell’autodifesa – come Israele, in grado di giustificare in questo modo un genocidio stigmatizzato da (quasi) tutto il mondo.
Lì riseide il terrorismo elevato a forma di governo. Il silenzio riverbera infinito o viene interrotto solamente dalle grida del sangue dei torturati. Quando si spezza il patto sociale e la voce viene interrotta, si apre una fornace di carneficine e devastazione. Lì non c’è futuro, solo una spirale di repressione che si alimenta di nuove violenze.
Oggi, nella casa natale di Gramsci, guardavo il suo ritratto dipinto in varie forme dai detenuti, sullo sfondo dei suoi luoghi da loro immaginati. Ogni ritratto era diverso, come diverse sono le storie di chi sta dietro le mura delle nostre carceri. Eppure, tutte parlano dello stesso bisogno: rompere la separazione, costruire un ponte. Il carcere è il simbolo massimo della divisione, ma quella separazione – e me ne convinco sempre di più dopo le decine di incontri che ho fatto in questi mesi, con decine di testimoni ed esperti – non risolve nulla. Come l’autoritarismo, che crea muri e divisioni pensando di arginare il caos, così il carcere non fa che moltiplicare la violenza che dice di dover arginare. All’infinito.
Intanto, per le strade di topolini neri in fila serpeggia l’odio che si alimenta del buio che è nelle loro teste e da esse scivola come un budello di scarti da indigestione del mondo e della vita.
Gramsci ci ha insegnato che la parola ha il potere di resistere al tempo e oggi, in un’epoca in cui la violenza e la repressione sembrano trovare terreno fertile, non possiamo cedere all’indifferenza. Non possiamo cedere lo spazio della Parola al silenzio. Perchè l’indifferenza che alimenta il silenzio paralizza la testa che, muta, accetta tutto quello che chi grida più forte impone, come un rigor mortis che parte dalla lingua e si diffonde a tutto il corpo sociale per arrivare alla confisca dei beni e della nostra stessa vita.
Quello che fino a ieri credevamo scontato e vero potrebbe sparire, tutto d’un fiato.
La parola che tutti abbiamo sulla bocca, di sdegno e orrore, quando vediamo sfilare questi cortei funebri, non può fermarsi all’indignazione o alla rabbia. Dobbiamo andare oltre, ricordando il nostro compito: difendere un mondo imperfetto, sì, ma fondato sull’attenzione verso la cura, sul gesto che accoglie invece di respingere, sulla connessione che include invece di escludere.
Un mondo dove l’identità non si specchia narcisisticamente in se stessa, come uno scafandro vuoto con attorno una bandiera, come fosse una bara; bensì, si costruisce negli intrecci, negli incontri, nell’apertura verso l’Altro. l’Italia è tutti i passati che ha conosciuto – non solamente Uno -, come una passerella che si incunea tra l’Africa e l’Europa attraverso il mare, aperta al mondo.
Oggi, ad Ales, parlando di carcere e osservando i ritratti di Gramsci immaginati dai detenuti, penso a come sia ipocrita ritenere che il carcere – simbolo estremo di separazione – possa correggere le ferite che pretende di sanare, perché le radici di quei problemi stanno sempre nelle marginalità e nell’esclusione. Allo stesso modo, l’autoritarismo e i suoi seguaci non possono correggere il mondo con la loro volontà di potenza identitaria: creando divisioni ed esclusioni, possono solo alimentare nuove violenze e nuovi soprusi. E’ un male che giustifica sè stesso; quel male che ottusamente, ipocritamente, millanta di combattere. E’ il male che si impone come separazione, come arbitrio, come diritto del più forte.
Allo stesso modo, la consapevolezza di ritenere questa casa, la nostra casa, come un luogo comune, e la nostra identità come esposta all’Altro e fatta di altro, ci continua a confermare di poter sedere, di doverlo fare, dalla parta giusta della Storia, quella che necessariamente include invece di escludere. Perchè un mondo che sa di essere un intreccio di radici sa anche che l’unica strada verso il cielo non può avere mura per difendersi senza diventare a sè stessa prigione. Questo mondo che vuole abbracciare l’Altro, che riconosce la propria forza nella molteplicità e nella condivisione, sa di essere memoria viva, intreccio di storie e parole capaci di costruire ponti per vivere.
E alla fine, ciò che parla resta.
Il silenzio scompare.
Nostro compito è restare Vita facendo Memoria.