L’orologio
Mio padre mi ha regalato un orologio per Natale. Era uno dei tanti posseduti da mio nonno. Questo, in particolare, ha un ritaglio di giornale incollato sul retro, un’abitudine che mio nonno aveva per classificare i suoi acquisti realizzati da qualche antiquario o rivenditore di preziosi. Mio nonno era un uomo distinto, con un gusto raffinato per gli oggetti eleganti. La sua casa era piena di tappeti, alcuni dei quali oggi vivono di nuovo nella mia.
C’è qualcosa di quasi magico nel riattivare i vecchi ingranaggi di curiosi oggetti con un cuore a molla. Quando sento la campanellina interna suonare lo scoccare dell’ora, mi sembra di essere di nuovo in quel palazzo abitato da assicuratori vicino alla stazione, in un’epoca in cui un mestiere ti garantiva un alloggio, una posizione sociale e la possibilità di arredare casa con il gusto di una vita intera. Era un tempo in cui gli oggetti erano pochi, scelti con cura, e raccontavano chi eri.
Ascoltando il canticchiare di questo steeple clock mi pare di poter sentire di nuovo i rumori della città che si insinuavano in quella casa-museo quando, da bambino, restavo dai miei nonni. Venivo dalla campagna e mi sembrava di dover domare una giungla di colori e suoni, un compito che solo il tempo avrebbe reso familiare. Allora, tutto era gigante. Quel grande appartamento al settimo piano, che oggi mi apparirebbe piccolo come una cella d’alveare, mi sembrava infinito. Un labirinto di stanze e corridoi da cui, affacciandomi dalla cucinetta verso sud, sentivo di dominare il mondo, guardando Brescia Due ancora in costruzione.
Trovo sempre affascinante come certi oggetti – solo alcuni, non tutti – siano in grado di riaprire la scatola dei ricordi e di farci immergere in epoche passate. Alcuni sembrano custodire la personalità delle persone che li hanno posseduti. Mi chiedo spesso perché mio nonno fosse così attratto dagli orologi a pendolo e a molla, tanto da possederne almeno due dozzine, sparsi in ogni stanza, che ogni giorno controllava e caricava con scrupolosa dedizione.
Credo ci sia un rapporto necessario tra il bisogno di calcolare il tempo, di incastrarlo in uno schema, e gli oggetti che sopravvivono a noi e alla nostra vita. Questi oggetti misurano il nostro tempo perché lo superano: ci resistono, e al contempo ci controllano, suddividendoci in frammenti e porzioni discrete. Noi, invece, ci illudiamo di poterli misurare e, con loro, di catturare qualcosa di ineffabile come il tempo, quasi fosse un rito scaramantico o propiziatorio. Ma è il tempo, in realtà, a definire noi, tracciando misure e proporzioni attraverso gli oggetti che ci accompagnano. Pensiamo di essere noi ad allinearli secondo il nostro ordine e il nostro gusto; sono invece loro a disporci e a darci forma, conferendo a noi, loro proprietari, un carattere che sembra modellato da essi.
Cosa saremmo senza la nostra collezione di abiti, scuri o colorati, alla moda o vintage? Senza i nostri libri, i dischi, i souvenir dei viaggi o le cantine colme di cianfrusaglie? In un mondo di librerie digitali che galleggiano nella rete, di resi gratuiti sugli store online, di fotografie che evaporano nei cellulari o si perdono in schede microsd, e di mobili Ikea che si disfano a ogni cambio di stagione, sono sempre meno gli oggetti che coincidono profondamente con il nostro carattere. Sempre meno quelli capaci di testimoniare un’epoca e di renderci corrieri del suo gusto. Viviamo in un’era di fast fashion, fast food, fast everything, dove tutto scorre senza aggrapparsi agli argini. Il fiume del tempo è stato tombato: attraversa le nostre città incanalato in invisibili tubi di fibra ottica, sfuggendo così allo sguardo, al tatto, alla memoria.
Eppure, questo orologio sembra sfidare il tempo. Nonostante fosse prodotto in serie, il ritaglio di giornale sul retro lo colloca agli inizi dell’Ottocento. Con l’anno nuovo, compirà 200 anni. Mi chiedo: siamo noi a cercare di fermare il tempo, incapsulandolo in oggetti simbolici, o sono questi a contenerci e a darci forma? Non esistiamo forse attraverso ciò che lasciamo dietro di noi?
Di fronte al pensiero della finitezza umana, gli uomini hanno sempre cercato il senso della vita all’interno dei limiti di ciò che era dato pensare nel proprio linguaggio e con i propri strumenti. Si sono interrogati su ciò che eccedeva la vista, sul mistero che sfuggiva alla loro comprensione.
I Greci, ad esempio, erano profondamente inquietati dall’idea dell’infinito, l’“àperion” – il senza limite. Sebbene pensatori come Anassimandro riconoscessero in esso l’origine di tutte le cose, la cultura greca necessitava di porre confini per dare forma e senso al cosmo. Il limite diventava misura, e la misura un modo per ordinare il caos.
Molto più tardi, Kant avrebbe sottolineato l’irrinunciabile tensione della ragione a superare quei limiti, pena il cadere nell’errore della metafisica svincolata – come avrebbe voluto Platone – dal peso della carne e dalla realtà sensibile. Eppure, è proprio la realtà sensibile a radicare e a rendere concreto il pensiero. Proprio come una colomba che, sentendo l’attrito dell’aria sotto le sue ali, desiderasse liberarsene, senza rendersi conto che è quella resistenza a consentirle il volo.
Qualche decennio dopo, Martin Heidegger avrebbe affermato che è la consapevolezza della propria mortalità a permettere all’Esser-ci dell’uomo, gettato nella sua finitudine, di aprirsi alla dimensione trascendente dell’Essere. In quella presa di coscienza risiede il fondamento del significato e il valore stesso dell’esistenza.
Ciascuno di noi percepisce che è proprio nel traboccare del proprio moto ondoso interiore, oltre i limiti imposti dalla fragile e contenuta bordatura della vasca in cui siamo racchiusi come inquieto maroso, che si trova il brivido dell’esistenza: nel momento in cui esploriamo il confine ignoto di un limite non ancora varcato; quando ci spingiamo oltre lo specchio delle rappresentazioni che riflette la nostra immagine come un mare trasparente, congelato in un’immagine immobile; quando varchiamo il limite della notte per vederla trasformare dal buio alla luce.
E’ così allora che contiamo i passi:: per misurare un numero che non possiamo conoscere, affidando il nostro cuore alle gambe di un altro viaggiatore, oltre il sentiero che stiamo pensando di aprire nella foresta. Forse è così che conosciamo davvero la nostra vita : nello sforzo estremo di misurarla solo perché lo sforzo che riponiamo nell’ordinare ed organizzare ci sovrasti, affinchè questo sforzo ci ecceda e ci sovrasti, permettendo così all’energia sprigionata di investire qualcosa o qualcuno che, raccogliendo il risultato del nostro lavoro, ci porti con sé oltre il mistero di un tempo nuovo.
C’è qualcosa di straniante e al tempo stesso profondo nel suono di un orologio che non si limita a segnare il tempo, ma lo attraversa. Ascoltandolo, mi sembra di percepire la voce di una Storia racchiusa al suo interno, una Storia che forse aspetta ancora di essere scritta, insieme a lui.