Cosa ci ricorda Ottavia Piana

19/12/2024
Posted in Diary, Speleo
19/12/2024 nz

Cosa ci ricorda Ottavia Piana

Ci sono storie che ti colpiscono particolarmente.
Sarà il momento in cui capitano, saranno le reazioni che suscitano. Fatto sta che la vicenda di Ottavia Piana mi ha toccato da vicino, perché solo poche settimane fa ho concluso un corso di formazione di speleologia con l’Associazione Speleologica Bresciana, perchè si è parlato a lungo dei rischi connessi all’attività speleologica e delle operazioni di soccorso e cosa comportano, ed anche perché Ottavia è originaria di queste zone.
Inoltre, non credo che la notizia mi avrebbe colpito allo stesso modo se non fosse stato dato ampio risalto alla vicenda, ponendola in una luce tanto ambigua da alimentare sospetti e pregiudizi che lo spettro malato dei social network ha ampiamente distorto, con reazioni di ampia scala che, a mio avviso, hanno completamente trascurato l’aspetto più importante della vicenda. Ma procediamo con ordine.

La speleologia è una disciplina scientifica che si occupa dell’esplorazione, documentazione e studio delle cavità sotterranee naturali e artificiali, come grotte, caverne e fiumi sotterranei. Essa integra conoscenze di geologia, idrologia, biologia e archeologia per comprendere l’origine, l’evoluzione e i fenomeni che caratterizzano questi ambienti nascosti. Si tratta, dunque, a tutti gli effetti di un’attività che integra un insieme di conoscenze e pratiche, volte alla scoperta e mappatura del sottosuolo. Non, insomma, un’attività alla portata di tutti coloro che sono alla ricerca di un hobby stravagante che li possa esporre a un rischio non ben calcolato come in tanti, troppi, hanno maldestramente insinuato per tutte le oltre 80 ore dell’intervento di recupero che hanno consentito il salvataggio di Ottavia, dopo la caduta nel pozzo di Bueno Fonteno, dove era impegnata in attività di mappatura ed esplorazione.

L’operazione di salvataggio ha coinvolto 159 tecnici del Corpo Nazionale di Soccorso Alpino e Speleologico, provenienti da 13 regioni italiane. Nonostante le difficoltà legate alla conformazione della grotta, i soccorritori sono riusciti a riportare Piana in superficie alle 2:59 del 18 dicembre, anticipando le tempistiche previste. Questo incidente, rappresentando il secondo infortunio per Ottavia nella stessa grotta in meno di un anno e mezzo, ha attirato sulla ragazza profonde critiche da parte dell’opinione pubblica.
Questo accanimento, in un momento così drammatico per la speleologa, non ha potuto non incuriosirmi, inserendosi a pieno titolo in quella lunga catena di eventi capaci di polarizzare l’opinione dei social in senso deteriore.
Le critiche sono state particolarmente accese anche perché la stampa non è stata in grado di presentare, fin dall’inizio, la notizia in maniera chiara, lasciando intendere che fosse un caso assimilabile ai tanti infortuni di montagna, in cui le persone si fanno trovare impreparate in situazioni che richiedono preparazione e strumenti tecnici adeguati.
Per la cronaca, a fronte dei 12.349 interventi del CNSAS nel 2023, solo 19 sono interventi hanno riguardato la speleologia, a sostegno della tesi che vede le persone che sono coinvolte in questa attività come preparate, attrezzate e caute. Proprio come nel caso di Ottavia.
A mio modesto parare, la società italiana speleologi non è stata in grado di diramare informazioni e comunicati stampa chiari, né gli enti territoriali sono stati in grado di tamponare la mancanza di un punto di vista lucido, prediligendo un profilo basso e l’impegno dei volontari nella partecipazione ai soccorsi, senza troppo clamore. Ritengo che in questo momento storico, proprio chi è titolato a parlare ed è in possesso di competenze e conoscenze dovrebbe aiutare a tamponare la deriva del chiacchiericcio molesto che intasa i canali di comunicazione, poichè quando non sono presidiati i luoghi della riproduzione delle opinioni comuni, tendono a generarsi mostri dalle zanne intrise di odio e misoginia o, peggio, dalla forte carica antisociale.

Questo caso ha alimentato in me una serie di riflessioni.
Prima fra tutte, il fatto che in questa società in cui tutto è nell’illusione della trasparenza e dove sembra di poter giudicare tutto senza interrogarsi sui limiti del sapere, si finisce con il diffidare e forse un po’ detestare chi abbia l’ardire di portarsi nelle zone di oscurità, per cercare di rischiarare l’ignoranza.
Al pari di un mito della caverna rovesciato, qui è chi si immerge nella grotta a voler portare un po’ di profondità a coloro i quali credono di essere già nel pieno splendore della luce delle loro (inadeguate) conoscenze, coloro che pensano di poter giudicare sempre tutto dalla posizione di forza di uno schermo illuminato di computer o cellulare. Scavando nei meandri delle profondità della terra, però, si può scivolare e farsi male, e chi è ben protetto dalle false certezze della propria indifferenza borghese non ti perdonerà questo ardire.
Nella nostra società, anche il rischio è stato eliminato. Ce lo ricorda il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han, che nei suoi tanti saggi ha splendidamente illustrato come la superficie touch degli smartphone non conosca l’attrito della realtà e la voce dell’altro. In questi non-luoghi, anche il dolore è bandito, quindi finiamo con il diffidare di chi osa farsi male.
Il rischio deve essere cancellato nella società delle superfici lisce. Nessun errore è tollerato. Figuriamoci due, a distanza di un anno, in grotta. E figuriamoci se è una donna ad osare sfidare le convenzioni, non restando a casa a fare a maglia, come in centinaia hanno suggerito nei commenti sarcastici agli articoli dei giornali riportati online, articoli che spesso hanno riportato informazioni frammentarie e che comunque chiaramente i commentatori non leggevano, fermandosi ai titoli clickbait.

Eppure, ed è questo quello che di questa storia mi ha interessato molto, la vera notizia è quasi passata in secondo piano, come se fosse una mera statistica oppure un aggravante delle colpe di Ottavia Piana: 159.
159 sono gli speleologi del CNSAS arrivati da diverse città di tredici regioni per darsi il cambio nelle attività di recupero, una vera prova di professionalità, dedizione e competenza che ha permesso il recupero in tempi tutto sommato celeri, data la distanza e la profondità dell’intervento. Tutti volontari, come Ottavia.
Recupero che è finito senza ulteriori incidenti e senza ulteriori complicazioni per la speleologa, che in parte attenuano un’altra accusa ripetuta a vuoto, vale a dire che con la sua irresponsabilità avesse messo a repentaglio la vita di altre persone (come se questo incidente fosse causato da una “pazzia” e non dallo svolgimento di un’attività che contiene in sé un rischio, sì, ma pur sempre calcolato, intrinseco all’attività stessa). Vale la pensa ricordare, inoltre, che tutti quanti eranno assicurati, poichè non si svolge l’attività di speleologo senza una copertura assicurativa e che, come ha ripetuto il vice presidente del CNSAS, ha avuto un costo inferiore a certi interventi di recupero di turisti dispersi in montagna, senza lo stesso clamore mediatico.

La vera notizia in questa vicenda è proprio questo aspetto, vale a dire che l’attività di speleologia in sé contenga un rischio, come tutte le attività umane, ma che comporta il necessario e implicito senso di condivisione, unica condizione per cui si possa praticare la speleologia: in grotta non si va mai da soli, si va sempre in squadra. È la squadra e il gruppo la garanzia dell’attività stessa, non è un’attività suscettibile di colpi di testa. Per sua natura, tutte le azioni sono monitorate e registrate, i compagni di squadra sono la garanzia. Tutti gli speleologi hanno seguito una formazione precisa, non sono improvvisati. Le associazioni territoriali affiliate alla Società Speleologica Italiana hanno un codice e una filiazione, condividono filosofia e metodo. E chiunque si trovi in difficoltà viene aiutato. Ci sono procedure, c’è una struttura.
Questa vicenda, che ha visto per la sua risoluzione l’intervento di un centinaio di persone, non ha richiesto la mobilitazione dei “leoni da tastiera” dai loro divani per venire risolta: sono state decine e decine le persone che erano pronte, preparate e impegnate per salvare una collega, immediatamente un’amica. Non l’hanno fatto certo per obbligo calato dall’alto ma, in primo luogo, per senso morale di condivisione di una passione; in secondo, di un destino: sarebbe potuto capitare a ciascuno, e per cui ciascuno si è sentito chiamato in causa per aiutare, mettendo a disposizione la propria professionalità e dedizione.
Questa connessione basilare, che si fonda sulla condivisione di un sentimento comune, sembra essere sempre più merce rara nel mercato dei giudizi pronti da essere emessi con il verdetto dell’immediatezza, nel grande campo da gioco delle opinioni non richieste di questa strana società civile, questa congrega umana che sempre più si va manifestando nel mondo virtuale e non in quello reale: nel mondo reale, le persone in difficoltà, si aiutano. Lo abbiamo visto in molti casi: a volte, se necessario, si sfidano anche le leggi come quelle che dovrebbero impedire ai pescatori di recuperare zattere e battelli alla deriva nel grande Mar Mediterraneo – eppure spesso i pescatori si impegnano lo stesso per soccorrere.
Nel mondo virtuale, perdiamo i pezzi, il senso della relazione e della proporzione, e forse anche un po’ di noi stessi e della nostra umanità.

In un libro a mio avviso fondamentale per questo tempo storto, “Soffro dunque siamo”, Marco Rovelli ci ricorda che alla base di tutto non siamo individui, ma con-dividui. La sofferenza sempre più dilagante nella nostra società liberista, negli ultimi vent’anni, ha visto aumentare notevolmente il disagio psichico e la sofferenza, specie tra gli adolescenti, sempre più incapaci di stabilire relazioni interpersonali profonde e significative, lasciati soli in un mondo di specchi e feriti da una società sempre più marcatamente composta di individui soli. La nostra mente non è una mente individuale, ma intimamente relazionale – lo sostiene Daniel Siegel nel suo “La mente relazionale”. La coscienza di sé si sviluppa attraverso la relazione che costruiamo con gli altri e la nostra mente è un prodotto di relazioni.

Perché ricordare tutto questo in una vicenda che riguarda “solo” un salvataggio in grotta?
Ho detto prima che questa attività di ricerca si è svolta, in un certo senso, nella direzione contraria a quella del filosofo nella caverna di Platone: lui usciva alla luce del sole per vedere da fuori la grotta, giungendo a capire come fosse questa sorgente luminosa a produrre le ombre degli oggetti al suo interno, scambiate per la realtà stessa. Qui la ricerca speleologica si indirizza nella direzione opposta, andando proprio dentro la grotta a cercare i fondamenti del nostro mondo e riportare la conoscenza fuori. Questa grotta oggi diventa metafora dell’intima connessione delle cose che, una volta persa, rischia di mandare tutto in frantumi. E’ nello sprofondare tra le ombre che possiamo ritrovare l’unione tra le cose che in superficie abbiamo perso, nella trasparenza di un mondo che vogliamo ingannarci essere piatto e privo di striature, di incidenti di percorso, solitario – mondo che invece è interconnessione di radici, fragilità di errore, esperienza di comunità e di profondità impensate.

Così, la vicenda del salvataggio ci ricorda come non siamo mai da soli quando ci avventuriamo alla scoperta di qualcosa; questa ricerca la possiamo fare solo con-dividendo un viaggio, una meta, un destino.
I 159 speleologi accorsi a salvare Ottavia ci ricordano ancora che il nostro punto di vista andrebbe rovesciato: ci ricordano che dovremmo essere felici di sapere che non veniamo lasciati da soli al buio; che è possibile pensare che possiamo salvare il destino della nostra società, anche quando ci sembra condannata all’egoismo e all’individualismo e devastata dalle guerre. Che possiamo contrastare una volgare e ignorante campagna di infamia contro una ricercatrice appassionata se leviamo tutti gli scudi contro attacchi sciovinisti e pretestuosi. Che anche noi possiamo portare un pezzo della barella sulle spalle, se ci indirizziamo verso un destino di cura invece che di conflitto.
Che è molto meglio pensare di poter esplorare un pezzo di mondo insieme ad altri appassionati come noi. Soprattutto se siamo pronti a sostenerci, se qualcuno cade, senza invidia o senza biasimo. Perché il nostro è un destino di fragilità e di bellezza, ma solo se siamo disposti a condividerlo con tutti.